COME FAR DURARE L'EFFETTO PISAPIA OLTRE L'ESTATE
di Massimiliano Guareschi
(Il Manifesto sabato 2 luglio 2011)
Che cos'è l'effetto Pisapia? Un fatto politico o solo elettorale? Saranno i prossimi mesi a dircelo. La questione si può riassumere in una semplice domanda. Le Officine (a base tematica) e i Comitati (a base territoriale) sono stati solo un'azzeccata trovata di marketing politico, che si è dimostrata in grado di motivare un elettorato distratto e scettico, fornendo a costo zero le forze e le intelligenze per schiantare il maldestro fuoco di fila della macchina propagandistica morattiana? Se così fosse, non resterebbe che considerare esaurite quelle esperienze, per lasciare che il gioco della politica prosegua as usual, con i partiti a svolgere la loro funzione, dopo avere stabilito i reciproci rapporti di forza e lasciato il dovuto spazio alla retorica di circostanza sulla società civile e i suoi rappresentanti. Oppure le cose stanno diversamente e a Milano il vento è davvero cambiato, in un senso che va oltre l'affermarsi di una nuova maggioranza in consiglio comunale? Se si propende per questa ipotesi diviene legittima una scommessa sul fatto che la partecipazione che si è espressa in forme nuove nelle Officine e nei Comitati o nella molteplicità di iniziative che, assumendo il nome Pisapia come brand, si sono dispiegate nei più svariati ambiti possa avere una valenza non contingente. Il protagonismo collettivo che ha cambiato volto alla città sembra non essere rassegnato a rientrare nei ranghi, le reti che si sono stabilite non paiono intenzionate a smobilitare. Certo, non si tratta di esagerare la portata di strutture calibrate rispetto alle esigenze di una campagna elettorale ormai terminata, né tanto meno di tenerle in vita artificialmente. E tuttavia la nuova avventura amministrativa non può prescindere dalle forze e dalle intelligenze che si sono aggregate dando vita all'"effetto Pisapia". Ed è forse in questo senso che va interpretato l'appello del nuovo sindaco, al momento dell'insediamento, a non lasciarlo solo.
Inventare strumenti, modalità e dispositivi in grado di proiettare nella dimensione del "governo" le energie che si sono dispiegate nella campagna elettorale: questa le vera sfida che emerge dalla primavera milanese. Con formula usurata, si potrebbe parlare di spinte dal basso, ma risulterebbe fuorviante. Una rappresentazione di quel tipo, infatti, travisa, collocandole sul registro della subalternità, le tipologie di aggregazione trasversali, rispetto alle competenze, alle provenienze politiche, alle condizioni professionali, alle appartenenze generazionali, che si sono manifestate in questi mesi, riducendole al ruolo di semplici portatrici di domande e bisogni che solo la politica "in forma" sarebbe in grado di interpretare per fornire una risposta. Ma, come si è visto durante la campagna elettorale, non è così. La capacità di elaborazione e attivazione in tempo reale di gruppi, individui e reti informali ha permesso di essere "sempre un passo avanti all'avversario", svuotando spesso preventivamente l'impatto di ogni sua iniziativa propagandista. Si è molto parlato della capacità della rete e dei social network di ridisegnare le dinamiche di circolazione dell'informazione e di funzionamento della sfera pubblica. Meno si è sottolineato come essi predispongano le condizioni anche per nuove modalità di azione politica, le cui forme istituzionali sono tutte da pensare e definire. Non si tratta di mettere in discussione i quadri della democrazia rappresentativa, né di invocare un assemblearismo tous azimuts, irrealistico e defatigante, incompatibile con i tempi della decisione amministrativa. La politica democratica, tuttavia, non ha a che fare solo con le procedure e non può esaurirsi nella conta dei voti. Lo sanno bene lobby e altri stakeholder, collettivi e individuali, che non mancano mai di fare sentire il loro peso. Fra questi i partiti che, nel bene o nel male, hanno svolto per una lunga fase una funzione quasi monopolistica nella promozione e nella gestione della partecipazione politica. Da anni però viviamo la crisi della forma partito, alimentata peraltro dalla retorica sull'antipolitica veicolata dai partiti stessi. Qualsiasi cosa si pensi in proposito, è finita l'epoca dei partiti di massa, radicati, capaci di raccogliere le più diverse istanze, di rielaborarle all'interno delle proprie filiere, di garantire luoghi di elaborazione e socializzazione. La vocazione del partito leggero, verso cui volenti o nolenti ci si è incamminati, è completamente diversa. E allora la partecipazione e la cittadinanza attiva devono cercare altre strade. Speriamo che il laboratorio milanese ci fornisca lumi in proposito. Abbiamo davanti l'estate per pensarci. Ma per settembre ci si deve inventare qualcosa.
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